Dalle ceneri del fallimento emerge la gestione di Gianni Marrosu che tiene in vita la Torres sino alla metà degli Anni Novanta e alla proposta di acquisto di un tal Giovanni Gasbarroni, laziale imprenditore nel ramo delle pompe funebri. La prima batosta nei primissima Anni Novanta quando l’allora presidente Corrado Sanna dovette dichiarare il fallimento. Dopo la presidenza di Bruno Rubattu e la promozione in C1 è cominciato il calvario. La Torres negli ultimi 18 anni ha vissuto momenti drammatici, oltre che umilianti. E quello che si vuole praticare sa di accanimento terapeutico, mentre non c’è più niente da curare. Così la Torres, quella che ha 108 anni di storia e di gloria, resterà sempre ben viva mentre l’altra Torres, quella che nel ritratto si accolla tutti i mali della sua brutta copia, quella delle brutte figure, dei pasticci amministrativi, delle promesse non mantenute, degli stipendi non pagati, in una parola e in troppi brutti ricordi quella degli ultimi anni e degli ultimi presidenti, quella Torres è un malato terminale. L’unica è ripartire da zero: senza mammelle pubbliche da mungere, con idee chiare e persone capaci, anche di fare un passo alla volta. Ora è tardi per spezzare il diabolico maleficio alla Dorian Gray. Più che una scappatoia il gesto tardivo di Mascia sa infatti di fuga, anche da responsabilità che dovevano essere chiarite prima. Quello che due anni fa - rilevata la squadra a costo zero - con un buon tecnico e tanti giovani se l’è trovata in zona playoff (si può fare, allora) lo stesso che ieri ha delegato a un subordinato il fatal gesto della consegna delle chiavi della società non al custode dello stadio, ma al sindaco. Doveva saperlo il presidente della Torres, l’imprenditore Antonio Mascia. Lo sanno tutti, a partire dalla Dinamo basket che costa di più eppure va avanti, e dà l’esempio. Che nel Sassarese la crisi sia più acuta che altrove lo sa anche l’ultimo filo d’erba del Vanni Sanna.
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